© morena
"A m'arcord" un tramonto che rompeva i timpani.
Fu un boato quella sera sul mare, quel silenzio di luci rosate, da casa mia.
Luci rosa, ironia, come il suo nome.
Forse era già lì dentro, mia madre, mentre cercavo di esplodere il mio dolore sulla carta.
Scrissi un commiato come se lei fosse lì, davanti a me, con una valigia in mano, in procinto di andarsene in vacanza alla fine del mondo, mentre davvero mi sembrava il finimondo quel morire del sole fuori dalla finestra della mia casa nuova.
Spazi vuoti, tutti da riempire di noi, dei suoi consigli, di nipoti, di vecchiaia, della nostra vita insieme.
Ma lei non la vide mai riempirsi.
Svuotò le nostre vite, la sua morte.
Seduta per terra, nella cucina con i pensili appena montati ma ancora senza un tavolo, le scrivevo per ringraziarla, per salutarla, per parlare con lei, per sputare sul foglio lo sbigottimento dell'anima, il subbuglio che sentivo... e per piangere, perché quella morte improvvisa non mi aveva trovata pronta a lasciarla, così non avevo lacrime, io parlavo con lei, come una pazza.
Altro che un minuto corpicino in un letto (sembrava così tanto più piccola...).
Quella non era mamma. Mi sconcertava il mio rifiuto.
Mi sentivo arrabbiata.
E allora scrissi.
'C'eri sempre
ci sei
dolce e accogliente
granito
di tutte le attese
e di tutte le speranze.
Dove vai, mamma?
Hai preso tutto?
Scrivi!
Non ci voleva
questa vacanza.
Potevi dirlo...
Chi me li tiene
i bambini,
adesso?
Scusa,
meriti una pausa.
Hai lavorato
tutta la vita
senza un fiato,
sempre
piena di dare.
E adesso
non so
cosa fare
senza di te
(ci vorrebbe un abbraccio).
Fai buon viaggio.'
A questo punto piansi.
Tutte le mie parole fino a quel momento erano andate a finire nei diari, ma non erano tentativi consapevoli, né tanto meno lo fu questo, di cercare l'espressione poetica.
Poi comprendi, rileggendole, che quella raccolta di sfumature e di colori della vita è proprio poesia.
Io cominciai dal nero.
© sellyselly
Ci sono ricordi che viaggiano nel 'sempre'; non trovano soste perché la loro missione è accompagnarci in ogni spazio.
Così le prime lettere d'amore, quelle scritte con la mano tremante, con l'indecisione tenera del poco-dopo-adolescenza, con gli occhi socchiusi per paura di sentire la voce uscire dall'inchiostro. Si sentivano le vibrazioni degli spazi e le sospensioni, fatte dai puntini, erano bombe a orologeria. Tre puntini, per l'esattezza. Quelli che non vogliono mai dire, per paura di essere fraintesi, quelli che sembrano troppi e a volte troppo pochi, quelli che nel sotteso allargano le vedute. Qualche parentesi mi era di aiuto per riprendere fiato, per far sì di essere compresa dove nemmeno io mi arrivavo; perché la parentesi abbassa il tono della voce, spiega gli angoli del sentimento quando si arricciano per il troppo caldo alle gote.
Era il punto esclamativo che mi dava forza, però! Che mi diceva: 'dai, continua, vedrai che ti leggerà tutto di un fiato e ti amerà per sempre'. Allora cercavo di terminare le frasi più zuccherine con la stanghetta puntata un po' storta, diagonale. Partivo dall'alto a destra e scendevo obliqua verso sinistra. Il puntino era spesso a forma di cuore, a volte lo coloravo pure di rosso.
E poi la busta. Ritagliata rigorosamente con il fai-da-te, sforbiciate lente e precise, colla Prit a seguire i bordi. E l'indice premuroso, appiccicoso a stendere il sogno.
Viaggio al centro (Managua 1984)*** © woodenship
Io bevo questo dramma
la mia esistenza
d'essa m'inebrio suggendone
con labbra di fuoco l'inscindibile essenza.
Un soldato, una donna in divisa
nella notte scivolano
mano nella mano
mani sui fucili;
lui nero lei rossa
veloci spariscono nella lotta
ingoiati dall'avida notte sventolante
enormi, fluorescenti bandiere rosse.
Tra tavoli e giungle c'è una suora
che sorride e rischiara gli animi
il suo sacrificio
è la vita dignitosa per altri.
E poi c'è la galassia
di sogni che cozzano
opinioni e pensieri che danzano
nell'universo fangoso e reazionario.
Qual mente perversa
l'abbia dilatato nello spazio
e nel tempo, facendomi navigare
attraverso oceani di lacrime amare, non sò...
Ma forse un dì ne scopriro il suo centro
***Una pura casualità che in quell'anno mi ritrovassi a passare per Managua, città fantasma nel vero senso della parola. C'era la guerra dei Contras, sponsorizzati e foraggiati dagli USA nei confronti del nuovo potere sandinista. C'era stato un terremoto che era stato sfruttato dal dittatore Somoza per ingrassare i suoi fondi all'estero. Era in atto un feroce embargo
da parte di tutti gli stati latino americani, USA in testa, con la sola assenza di
Cuba. C'era penuria di tutto e povertà su povertà. Ma la città era effervescente in modo incredibile. Una gran massa di cooperanti e internazionalisti si era precipitata per soccorrere, aiutare e collaborare. Tra questi un gran numero di cattolici di base: suore, frati, preti che si davano da fare in ogni modo. Insomma, un volontariato che, difficilmente si è più rivisto all'opera. In questo paesaggio assieme effervescente e desolato, mi capitarono incontri. Era da molto che non provavo nemmeno più ad abbozzare un guaito. Eppure ripresi in mano la penna e provai a scrivere
di ciò che vivevo. Quello più in alto è stato il risultato, maturato tra quelle vie che si perdevano in mezzo alla boscaglia, tanto da non riuscire mai a capire dove cominciava e finiva la città, tra baraccopoli e sponde deserte sul lago Nicaragua.
Pensavo di avere eliminato tutto quanto avessi potuto scrivere, a più riprese, nel corso di tanti anni. Invece qualcosa rimane sempre, magari appiccicato da qualche parte.
© mariateresamorry
Le mie prime esperienze poetanti, chiamiamole così, risalgono agli anni della quarta ginnasio, ove essendo avanti di un anno nel corso scolastico, entrai a 13 anni.L'ingresso al ginnasio rappresentò per me un salto di qualità forte, rispetto alla accudente scuola media inferiore. Infatti ebbi il primo vero contatto con la politica: ricordo le bordate del 1968, le ripercussioni del maggio francese, le proteste per la guerra nel Vietnam, le manifestazioni sindacali imponenti degli operai di Porto MArghera, le cariche della Polizia contro i manifestanti. A differenza di molti miei compagni di classe che si barricavano in casa sotto gli sguardi tutori delle madri, io invece partecipavo con tutta me stessa a questi eventi. Ho alcune foto dell'epoca dove appaio in talune manifestazioni vicino ai cantieri della Breda e mi scopro con uno sguardo serissimo e determinato. Capelli corti e maglioncino di lana, sciarpetta al collo e , alle spalle, un nugolo di bandiere rosse.. Su questo teatro, le mie prime poesie sono state del tutto politiche. Ne scrissi su Panagulis, su Che Guevara, su Martin Luther King....Non c'era nulla di nostalgico in quello che scrivevo , poichè vivevo gli avvenimenti in diretta e la mia coscienza politica cresceva. Non so obiettivamente dire che valore potessero avere quei miei scritti " rivoluzionari", tuttavia ricordo che alcuni miei versi sul Che furono stampati nel giornale del Liceo (forse la cosa era sfuggita al Preside). In quegli anni lessi anche furiosamente i simbolisti, passo obbligato, credo ,per la mia generazione, e cominciai pure a verseggiare su quell' impronta. Poesie d'amore vennero abbastanza più avanti, poichè per il mio carattere ero più un tipo che " sfidava" i ragazzi e costoro, ritenendomi pari a loro, mi trattavano di conseguenza. I primi versi amorosi mi vennero in capo verso i sedici anni. A seguito di una feroce delusione ( come è giusto che sia poichè l'amore non corrisposto è la più prodigiosa molla alla poesia ) verso un ragazzo che aveva bellissimi occhi verdi, carattere introverso e amava moltissimo Fabrizio De André, allora agli esordi. Un giorno mio padre, un po' stufo dei miei ritardi a pranzo o a cena, mi disse non la fatidica frase " questa casa non è un albergo", ma " vuoi darti alla politica? Va bene, ma prima studia! "....
Il Bartezzaghi ©Valdomarco
Si era ignoranti, non avevamo bisogno di sapere, al massimo la fisica delle sponde, la meccanica degli elastici, tutto era orale e fisico, la letteratura era a vignette, i cowboy parlavano come i preti di campagna, la cultura ufficiale erano le leggende metropolitane.
Non avevamo bisogno di sapere, ogni tanto, nel chiuso di qualche anfratto, veniva alla luce una nuova verità, il suo estensore l'aveva scoperta dai fratelli più grandi o ancora meglio dalle sorelle, come pionieri si scoprivano i materiali, il tabacco, il nylon, l'ortofrutta.
Il sapere era mitico e alla stessa stregua si trattava il sapere istituzionale, l'appreso si colorava di eccesso e si adattava alla bisogna, sarebbe passato presto questo periodo, ma al momento era eterno, non c'era motivo di aderire a una realtà che non portava frutti, poi entra il contaminante.
C'era da scrivere, da raccontare, quattro pagine a righe, da scrivere in grande, per occupare spazio, tracce da seguire, solo che lo spazio non era sufficiente, le cose da dire si allargavano di nuove parole, che come per i materiali prendevano peso, ara, aro, erta, una fretta incosciente di leggi, l'imitazione dei cuccioli, la grammatica era un suono, le pause estensioni del fiato, un ignorante raccontava l'ignoranza con le parole della settimana enigmistica, da allora è sempre stato così, non ricordo le parole, ricordo di essere diventato “quello che scrive” quello che un giorno avrebbe raccontato la storia di quella particolare ignoranza.
©ferdigiordano
Non era un concerto. E non era musica. Concomitanze di suoni, vi direi, se solo mi fosse stata chiara la provenienza. Sapete, no?, come si combinino certe volte i trambusti della natura per notificarci di che natura sono. Avrei voluto il silenzio completo per godere dell'ombra più sicura. E l'avrei anche urlato se fossi stato certo di una calma assoluta. La tensione, però, non è sufficiente a zittire il panorama, anzi, ne esalta i fragori. Sei preso da ovunque e nemmeno ti scansi. Sbandi e sgrani gli occhi perché la vista individui la fonte del rumore. Il lavoro toccherebbe alle orecchie ma i padiglioni convogliano i flussi senza alcuna distinzione. Così tocca alle pupille riequilibrare i sensi, però il luogo (qualsiasi luogo accertato dai piedi quale congegno di appoggio) mostra dinamiche di illuminazione che gettano ombre più nei profili che nelle speculazioni. Allora aguzzi ogni curva a dimensione d'antenna, eppure nulla sembra emettere altro che forme. Ora, non vi sfugge che le forme non siano voci e, benché non sia corretto pensare ad impianti vocali nelle cose, è vero però che tutto genera frastuono se scosso, preso dalla fermezza e agitato nell'aria. Immagino sia capitato anche a voi, in piena afa, di ventilarvi con un foglio spesso, diciamo un cartoncino, magari un ventaglio, mentre passeggiavate e, inciampando, avete emesso un grido rauco, maleodorante, appena capace di reggervi nel tentativo di riequilibrio sulle suole. Vedete, tutti questi sono rumori contemporaneamente percepiti che creano la situazione descritta, ma potete farlo giacché vi coinvolgono in prima persona. Indicate, dito puntato a squarciagola, dove sia l'origine giacché ne siete i fautori, ma quando in una fitta boscaglia, vestiti da giovani volpi, in fuga da un furto di mele e noci, tirate il fiato al limite della radura, vi sembrerà quello che a me pareva incomprensibile eppure capii essere la voce del bosco ammonirmi: "Quando mi toglieranno i rumori, ti troverai al fresco se ti nascondi!"
Tutte le poesie partecipanti
Progettazione grafica e web editing: Anna De Vivo